Perchè interrogarsi sulla parola?

La parola è sempre originaria, ci precede, viene prima di ogni discorso: nasciamo in un bagno di parole. La parola precede dunque anche il soggetto. Il soggetto, la soggettività, la soggettivazione: il sintomo. Se la parola è primigenia rispetto al soggetto, nessun soggetto può padroneggiarla, e la libertà di parola è prima di tutto la libertà della parola. Non esiste metalinguaggio, cioè non esiste un codice di riferimento che potrebbe rendere conto in modo univoco di ciò che si va dicendo. Non si tratta di scoprire la verità dietro la menzogna: ogni enunciato non può che essere provvisorio e dunque non può che essere menzognero. Occorre prenderlo come un modo di dire, come un racconto di cui non ci interessa valutare il contenuto ma lo stile, la grammatica, le figure retoriche, gli spazi bianchi.

Da qui l’importanza, anzi la necessità, di interrogarsi circa la parola, che rappresenta l’essenza stessa delle cose e non già l’involucro di una realtà “naturale”. Interrogarsi sulla parola è l’atto più concreto possibile, direi l’atto etico per eccellenza.

La psicanalisi non è un’ortopedia del dire. Non mira a correggere un dire in favore di un codice di riferimento. Non propone l’insegnamento di una teoria, e non richiede un “adeguato” background culturale dell’analizzante, né un’età minima o una massima. L’analista si sottrae dalla posizione di “maestro”, si rifiuta di dire “come stanno le cose”, qual’è la “soluzione” giusta. Eppure nel corso di un’analisi si può avere l’impressione di “imparare” qualcosa. Ma allora, dove origina l’insegnamento della psicanalisi? Non si tratta certo della trasmissione di una teoria, non si tratta di “insegnare la psicanalisi”. Non si tratta di una trasmissione di sapere (dall’analista all’analizzante), quanto di una trasduzione di sapere (dall’analizzante all’analizzante, attraverso il dispositivo dell’analisi). Questo perché il lavoro analitico attinge dal sapere inconscio presente nel discorso dell’analizzante, che non è fruibile direttamente e si presenta sotto forma di sogni, lapsus, metafore. Anzi, direi che occorre prendere ogni enunciato dell’analizzante come un lapsus, come una metafora, cioè nell’equivoco, mantenendo sempre quell’attenzione fluttuante, quell’ascolto distratto che solo ci permette di prendere le distanze dal piano dei significati. Occorre cercare tra le pieghe del discorso. A nulla devono servire le spiegazioni che vorrebbero rendere lineare, coerente il dire. Il significato vuole essere sempre più lampante, più chiaro, tanto chiaro che acceca e nasconde la lettera.

Allora cosa rende la conversazione analitica differente da una qualsiasi conversazione con un amico, un familiare, un medico o chiunque altro? Non certo un differente sapere. Se la psicanalisi fosse semplicemente un altro sistema filosofico, l’ennesima e non ultima Weltanschaung, se davvero ci fosse un sapere psicoanalitico sistematizzabile, sarebbe possibile l’autoanalisi e l’analisi non avrebbe per noi tutto questo interesse. La conversazione analitica non si differenzia dalle altre pratiche di parola per un diverso sapere dello psicoanalista: sicuramente non per un diverso sapere, come già detto, e tanto meno per un sapere che verrebbe dallo psicanalista. Al contrario, originando la psicanalisi dal lapsus, dal sogno, dalle dimenticanze, si da come sapere dell’inconscio. E non già sapere sull’inconscio, sapere tecnico: si tratta radicalmente di un sapere che si da ogni volta come effetto di parola, e che si presenta tanto puntualmente che perlopiù non viene neanche riconosciuto dal parlante. Non si tratta di andare a scavare nel profondo per trovare la versione veritiera dietro quella manifesta: l’ambiguità delle parole è ben presente ad ogni enunciato. Si tratta piuttosto di abbandonare il piano del significato, per seguire piuttosto i significanti, le catene associative. E’ perché le associazioni non sono libere che rivestono per noi una certa importanza, ed è per il fatto che non si esauriscono che l’analisi è interminabile. Ciò che si trova tra le pieghe del discorso non finisce, ma lascia sempre un resto: qualcosa di inspiegabile. Il sapere dell’inconscio è frutto di un dire, non si esaurisce, non può essere generalizzato, universalizzato, non può essere detenuto da qualcuno.

L’analisi si gioca sul “bordo” della storia, cioè nelle omissioni, nelle contraffazioni, nelle forzature del racconto. L’ascolto analitico, direi, spinge a diffidare della coerenza che ciascun parlante cerca di dare al proprio racconto, suggerisce di spostarsi dal registro della ragione, che ciascuno sostiene ed è sempre pronto a difendere con i denti, al registro del dubbio, del possibile, del nuovo e non del “già detto”. In analisi si procede ben sapendo che ogni sapere è parziale, quindi falso, quindi solo presunto sapere. Cioè in analisi non si cerca la verità, ma si cerca innanzitutto diparlare! Il discorso analitico non propone una teleologia dell’inconscio, anzi non fonda affatto l’inconscio, ma lo trova ogni volta nella parola. Per questo praticare la psicoanalisi non richiede alcun atto di fede, come accade perlopiù nelle religioni, ma al contrario costituisce un percorso intellettuale che punta a mettere continuamente in discussione delle credenze, lasciando che ciascuno provi ad articolare, semmai, le proprie (ogni volta provvisorie) risposte. Ma occorre che una domanda sia sempre in atto, che un interrogativo muova sempre il parlante alla ricerca di un nuovo dire.

Nel dolore c’è dolo? Forse sì, se cominciamo a pensare anche il dolore come effetto di parola, cioè come effetto di una storia che tarda ad essere scritta, o che è scritta da altri. Ma dove sta il dolo, quindi la colpa, se prima di tutto manca la volontà di compiere alcunché? La colpa, che è in relazione alla legge, è sempre soggettiva. Non c’è colpa, dunque, se non in relazione al proprio discorso, per cui si può essere colpevoli solo quando si è mancanti verso se stessi. In questo senso la psicoanalisi è etica: perché costringe a porsi domande e affronta, in genere, questioni di più ampia portata rispetto a quanto sembra più attinente al sintomo, anzi riporta quest’ultimo al dire (e non già alla Storia) di ciascuno. La psicoanalisi non fa dunque un discorso di colpa, ma di responsabilità: perché ciascuno diventi responsabile del proprio dire, e piuttosto “artefice delle proprie fortune”. Ciò significa prima di tutto capire che la parola non descrive gli eventi, ma li crea: ecco perché è importante avere cura del proprio discorso. Ognuno è implicato in ciò che gli accade, per come se lo racconta e, direi, per come lo anticipa con la parola. La qualità della vita dipende dalla qualità del racconto, dagli interrogativi che ci si pone, dalle trame che si è in grado di inventare: solo il maledire porta al malessere. Questo non significa negare la realtà che abbiamo attorno, semplicemente cominciare a pensare che con la parola possiamo volgere gli eventi, fargli prendere un’altra piega, così come possiamo dare un nuovo taglio al discorso.

Ciò può avvenire solo se la parola riceve continui rinvii, se nessuna parola è mai l’ultima, ma lo spunto per dire altro. La parola non conosce arresti, perché non ha principio né fine, quindi non può mai davvero essere padroneggiata. I lapsus, i sogni, la formazione dei sintomi, le associazioni libere, mostrano bene la primigenia della parola sul soggetto, e in analisi non si cerca tanto di guidare la parola, quanto di seguirla. Che non si possa avere l’ “ultima parola” è anche dimostrazione che non si possa mai imbrigliare la parola in un sapere. Ciò smentisce Aristotele, il quale sosteneva che “saper insegnare qualcosa” significa “sapere qualcosa”. Con un esempio un po’ banale aggiungo che non si “supera” l’Edipo diventandone esperti conoscitori. Vale a dire che non può esserci teoria che non discenda dall’esperienza di parola, ovvero non può esserci alcun sapere sull’inconscio senza un sapere dell’inconscio, non può esserci cioè un sapere che non nasca nel transfert.

Ciò permette di pensare l’analisi come un processo non vincolato all’altro reale, cioè all’analista come persona. L’analisi non ha tanto la pretesa di funzionare per cosa viene detto, ma per come ciò avviene. Forse le filosofie orientali propongono delle “vie” e dei maestri che fungono da “guida”, supponendo che ci sia un bene comune da raggiungere e che questo possa essere mostrato da altri. Ma è un bell’inganno. Nessuno può porsi come unico depositario di un sapere non accessibile ad altri e come l’unico in grado di padroneggiarlo, di trasmetterlo. L’obiezione della scienza è che il sapere si definisce a partire dalla replicabilità dei risultati, indipendentemente da chi esegue l’esperimento. Io ribalterei invece la questione, e direi piuttosto che non importano i risultati (il sapere che il maestro vorrebbe inculcare all’allievo), quanto il processo, l’algoritmo. Cioè è importante l’enunciazione, e non l’enunciato. Non si tratta di replicare, di ritrovare il già detto, o di correggere il risultato sbagliato. Si tratta invece di approdare ad una parola sempre nuova, inedita e perciò efficace. Ecco perché a priori non si da proprio nessun sapere universale, trasmissibile. Non c’è alcun sapere che preceda l’enunciazione e che possa dirsi vero per ciascun parlante. E non c’è nessuno che possa porsi prima di un sapere, sapere che ciascuno ritrova come effetto di parola.

Ciò che è auspicabile in un’analisi è che l’analizzante sia “attraversato” dalla parola, cioè che si impegni in un itinerario intellettuale che lo porti continuamente all’enunciazione, cioè ad un nuovo dire. Solo in questo modo la parola può essere efficace, “formativa”.

Pensiamo ad esempio ad uno studente di fisica alle prime armi: non è certo il caso che costui osservi la mela cadere dall’albero per scoprire la forza di gravità, gli basta rifarsi alla formula (la parola!) enunciata da altri, e da li proseguire. In analisi si tratta invece sempre di un nuovo inizio, ciascuna analisi, ma forse anche ciascuna seduta. Non basta la parola dell’altro perché avvenga un cambiamento (“è così, credimi, ti do la mia parola”). La parola è efficace solo quando è “sentita” dal parlante, cioè quando succede in una catena significante, quando nasce nel discorso, come effetto di un precedente linguistico.

E poco importa se ogni analisi, a tratti, sembra ripercorrere strade già battute, sembra snodarsi intorno ad interrogativi posti da altri, anzi, c’è da augurarsi che ciascuno non dia niente per scontato del proprio discorso. Solo non smettendo di interrogarsi sugli elementi del proprio dire si potrà tentare di articolare la propria questione, evitando di costruire il proprio discorso su verità di altri.

Non si tratta di una ricerca della verità, perché ciò che conta non è la soluzione, ma il processo. Una verità non è peraltro pensabile, se non in relazione ad un discorso, cioè in relazione a delle premesse, degli enunciati che ne sostengono altri. Ma allora cosa dire di un processo, quello psicoanalitico, che mira alle fondamenta di ogni discorso? Che la verità possa, al limite, essere raggiunta poco importa: ciò che più conta è che ognuno parli.

In psicoanalisi non c’è sapere precostituito, tanto meno si può pensare che l’analista sappia già alcunché e che sia lì per dare la soluzione, magari con un’attenta operazione di “timing”. L’analista è piuttosto colui che “dà da pensare”, che quindi usa la sua parola come dispositivo per interrogare il discorso dell’altro. Non si potrebbe d’altronde pensare l’analista come un “maestro di vita”, come colui che sia già giunto con successo al termine di un ideale cammino spirituale, o un “esperto”. Occorre dubitare dell’esperienza: la psicoanalisi è un’arte e la bontà di un artista non è quantificabile in anni di esperienza, di praticantato. Picasso, Mozart, Leonardo, erano geni da bambini come da vecchi, e il loro genio stava nel saperci fare più degli altri con la parola, nel riuscire ad anticipare gli altri nell’enunciazione, letteralmente a dire per primi quello che gli altri avevano ancora “sulla punta della lingua”. Ecco che allora l’esperienza è sempre esperienza di parola, e il tempo dell’enunciazione ha poco a che fare col tempo dell’orologio. Anzi il tempo è nella parola, cioè effetto di un discorso.

Fare esperienza di parola significa saperci fare con l’impossibile e proprio questo è richiesto ad uno psicoanalista: non una casistica, dal momento che ogni incontro, per quanto simile ad un altro, sarà sempre singolare.

L’analisi è una questione di qualità, non di quantità. Direi che la “bontà” di un’analisi sta nella capacità, da parte dell’analista, di mettere al lavoro l’analizzante, cioè di farlo pensare. Il lavoro dell’analista consiste piuttosto nel mettere gli accenti, le virgole, le virgolette, nel metter tra parentesi o sottolineare ciò che l’analizzante dice, insomma curare la punteggiatura del discorso perché prenda altre pieghe.

Pensando la bontà di un’analisi nei termini di un (presunto) sapere dell’analista (quale sapere: la morale comune, il buon senso, la ragion di Stato, l’interpretazione dei sacri testi freudiani?) si suppone, erroneamente, che l’analista possa farsi garante del bene, della verità di un individuo, come se ciò potesse esistere al di fuori della parola e non invece nella dimensione dell’enunciazione. La via dell’analisi deve invece necessariamente passare per la parola dell’analizzante, altrimenti siamo nel campo dell’ipnosi, della suggestione; è facile pensare di sapere il bene dell’altro, ma si tratta di fantasie. La posizione dell’analista (che indicherei come posizione in un discorso, non l’analista come persona in carne ed ossa) implica il riconoscimento dell’impossibilità di rispondere del bene dell’altro, di un bene che nel concreto non può che essere articolato dall’analizzante. Ciò comporta, per l’analista, un sottrarsi continuo alle domande dell’analizzante, per far in modo piuttosto che l’analizzante possa arrivare, in altro modo, ad articolare una propria questione.

La risposta funziona nella rimozione, soprattutto laddove non fornisce l’aggancio ad un’altra parola, cioè laddove il discorso “muore”: in questo senso direi che dare una risposta può far perdere una buona possibilità per pensare, ma cosa ancora più grave, nel momento in cui una risposta venga data col pretesto di una presunta autorità (autorità rispetto al sintomo o all’analizzante?), per cui spacciata per assolutamente vera, il sapere dell’analista diventa il limite dell’analisi.

Un certo riduzionismo psicologico porta spesso a cercare l’origine del trauma in un evento “esterno”, dunque considerato ad ogni modo “reale” e “oggettivo”, come se un accadimento possedesse la qualità intrinseca di rendersi traumatico per un soggetto. Ora, noi invece sappiamo che non possiamo scindere tanto facilmente percipiente e percetto, né possiamo dare per scontato la relazione che li lega. Ciò a dire che non possiamo in ogni caso supporre “esterna” al soggetto una parola che, prima di tutto, lo costituisce; dunque non possiamo pensare esterna al soggetto una causa che è allo stesso tempo condizione del suo esistere. Tra soggetto e parola c’è una relazione molto particolare, che merita d’essere approfondita; per ora basti pensare che la distinzione tra i concetti di “realtà esterna” e “realtà psichica” potrebbe non essere così scontata come siamo soliti supporre, e il bordo che idealmente le separa potrebbe essere molto più labile.

Questa idea del trauma come colpo fatale portò alcuni a considerare l’analisi come una sorta di esorcismo, che da una parte doveva “scavare” sempre più in profondità (l’idea per cui i ricordi più antichi e dolorosi sedimentavano sotto gli altri) alla ricerca del “nucleo” nevrotico, o psicotico, che doveva rendere conto della vita psichica di un soggetto; dall’altra l’analista si preoccupava di fornire interpretazioni che suonavano più come verità rivelate o formule magiche e che avrebbero dovuto “liberare” il paziente.

Ma noi sappiamo che nessun pensiero si fonda sul nulla, cioè non esiste una parola priva di un antecedente linguistico, quindi anche l’analisi non può ridursi alla ricostruzione della “scena originaria”, ma funziona in quanto esperienza di parola. In analisi non si tratta di “avanzare” lungo una strada che va dal “meno” al “più” (saggio, colto, intelligente, profondo, sincero, etc…), quanto sperimentare altri modi di pensare, porsi le questioni in modi diversi.

Direi che imparare a pensare significa riuscire a volgere ogni affermazione in domanda, cioè scoprire che nessuna risposta potrà mai essere esaustiva, definitiva, perché la rimozione è sempre in atto, per cui “tutto” non si potrà mai dire. Quando Socrate diceva che “più sapeva e più sapeva di non sapere” non intendeva forse questo? Più ci si interroga, più ci si accorge che nessun sapere può ritenersi soddisfacente. Sapere organizzato, come tentativo di sistematizzare la conoscenza, di legare la parola. Nessuna parola può dirsi più vera di un’altra, così ogni sapere può essere abbandonato: quando si azzarda la risposta ad un interrogativo non si giunge ad una conclusione, perché gli interrogativi si moltiplicano. La risposta esprime forse più un limite del pensiero, anche necessario perché si cominci a dire, ma comunque un limite nostro e non di una presunta realtà esterna. Pensare fa scontrare con i propri limiti, ed è proprio qui che funziona l’analisi: cogliere gli assunti su cui si fonda un discorso, mostrarne l’inconsistenza, domandare perché ci si trovi in quella posizione e cosa comporti per un soggetto fissarsi in quell’enunciato, quella parola.

La ragione, direi, è insufficiente all’analisi; ciascuno parla “a ragione” ed è possibilissimo che sia anche più allenato di chi è disposto ad ascoltarlo. Ma la ragione si fonda in genere su pochi enunciati, dunque è sempre parziale, sostiene un punto di vista. La psicanalisi non è però clinica del visibile e non si accontenta di ciò che “emerge”. Cerca piuttosto di mettere in tensione quelle che sono le premesse di un discorso, premesse normalmente date per scontate, perché ritenute inequivocabili, ovvie, condivisibili. Ma l’ascolto analitico non è una pratica del consenso, o del dissenso, è piuttosto svelamento di una posizione, posizione che il parlante enuncia “tra le righe” e quindi ogni enunciato non potrà che essere un punto di partenza. Ciascuna parola enuncia una “presa di posizione”, per cui esprime una relazione rispetto non solo a ciò che dice, ma anche a ciò cui solo allude, o che suppone.

L’analisi mira dunque a mettere in discussione ciascun enunciato, per arrivare a dire come ciascuno sia implicato in ciò che dice, e soprattutto in ciò che non dice.

La psico-analisi è dunque analisi della parola, tout court; la “psiche” non è ontologizzabile, cioè non è identificabile né come complesso di funzioni psicologiche (posizione mentalista), né è localizzabile in un organo (posizione organicista) e in ogni caso non è pensabile come antecedente la parola.

Perché ci sia analisi occorre dunque che ci sia esperienza di parola, confronto col diverso, straniamento, ma soprattutto occorre che ci sia una domanda. Che un’analisi sia tale non è dunque certificato dal titolo dell’analista, dalla sua formazione, dalla sua esperienza o dall’uso del divano. Occorre innanzitutto che l’analizzante sia impegnato a dire, per cogliere ciò che lo riguarda in ciò che dice, e per giungere al racconto. Per altro, direi che “neanche l’analista è padrone in casa sua”, cioè egli stesso è legittimato quanto tale, solo se riconosciuto dall’analizzante.

Direi che interrogarsi sulla parola significa cominciare dall’indispensabile, rispetto a qualsiasi percorso intellettuale, perché letteralmente nessuno è dispensato dalle leggi del linguaggio. Interrogarsi sulla parola può decisamente aiutare a sciogliere i paradossi, a smontare i miti, a smascherare i falsi problemi, ad impostare più rigorosamente le questioni. A maggior ragione costituisce un punto non eludibile per chi crede di servirsi della parola, mentre è asservito al linguaggio. La pratica di parola proposta dall’analisi è diversa da qualsiasi altra e non ha a che fare con la linguistica. E’ diversa perché non si fonda sul senso comune e nemmeno sul buon senso; anzi non pre-suppone alcun senso al dire: al più lo può ritrovare ogni volta, per dissolverlo di nuovo.

Go to top